Sigmund Freud: frammenti della vita e senso dell'analisi individuale - A 80 anni dalla morte del Maestro.

Giovedì 12 settembre 2019

Nella società odierna la psicoanalisi è ormai stata assimilata alle psicoterapie, cioè a quelle procedure, gestite da un operatore sanitario appositamente addestrato, grazie alle quali un individuo, portatore di un disagio psichico, cerca di stare meglio, o almeno di capire qualcosa dei problemi esistenziali che lo assillano. Ma nella storia della cultura occidentale la psicoanalisi è stata ben altro, oserei dire, soprattutto altro.

Sigmund Freud muore esule a Londra, il 23 settembre 1939, verso le ore 2 del giorno di sabato, consegnando ai seguaci un bagaglio di riflessioni la cui portata travalica ampiamente ogni aspettativa del gruppo iniziale.

Già nel 1925 il Maestro intuiva tutto ciò, ed aveva scritto: “Probabilmente il futuro stabilirà che l'importanza della psicoanalisi come scienza dell'inconscio oltrepassa di gran lunga la sua importanza terapeutica” (in italiano, Opere, vol. x). Così avvenne: la psicoanalisi fu sì un processo di cura, ma lo fu per pochi, mentre per molti – potremmo dire per intere generazioni di intellettuali – divenne il criterio d'interpretazione della realtà e, per eccellenza, il modello di funzionamento della mente.

Ma facciamo un passo indietro e tentiamo una breve riflessione sugli elementi costitutivi di questa poderosa ricerca. Il percorso che portò Freud alla formulazione della sua teoria delle nevrosi è abbastanza noto: Charcot, l'ipnosi, il rapporto con Josef Breuer, il Caso di Anna O. e gli Studi sull'Isteria del 1895; l'iniziale tentativo di strutturare un'interpretazione dei sogni ( Il sogno dell'iniezione di Irma ), la creazione della parola stessa “psicoanalisi ”, che apparve per la prima volta negli articoli del 1896; le prime pubblicazioni che lo resero celebre: L'interpretazione dei sogni (1899), Psicopatologia della vita quotidiana (1901) e i Tre saggi sulla teoria della sessualità(1905); la conferenza di Boston (1909), dove Freud presentò al mondo la sua ricerca e volle che la paternità del metodo psicoanalitico fosse attribuita a Breuer.

Insomma, al tempo della stesura del suo ultimo libro (Compendio di psicoanalisi -1939), terminato sul letto di morte, la psicoanalisi si presentava come un costrutto organico, particolareggiato, coerente, riconosciuto in Europa e negli Stati Uniti, con un'impalcatura che a buon diritto poteva essere definita “scientifica”.

Altri elementi individuali e soggettivi contribuirono a far sì che la nuova psicologia, all'alba del xx secolo, prendesse forma: non solo l'interesse del suo fondatore per il funzionamento della mente, ma anche la passione per l'archeologia, la conoscenza della mitologia greca e il senso della storia; in fine, l'esperienza del dolore fisico ed esistenziale. Relativamente a ciò gli psicoanalisti sembrano non ricordare che l'ultima parte della vita del Maestro fu un autentico calvario e che la psicoanalisi certamente servì a lui come lenitivo; Il dolore fu il crogiolo dove agì questo strumento di comprensione ed accettazione del vivere, strumento senza il quale tutta la senilità di Freud sarebbe forse stata esposta alla più cupa tristezza.

Freud elevò la sua “creatura” quasi a religione ed il conforto rassicurante, derivante dalla consapevolezza di tale paternità spirituale, lo accompagnò fino al trapasso. Freud sapeva di aver donato all'umanità una chiave interpretativa importante, sapeva di aver trasformato la cultura dell'Occidente e ne poté trarre soddisfazione e senso.

Il dolore. Dice Freud: “la sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia; dal mondo esterno, che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane; infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall’ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra” (Il disagio della civiltà - 1929).

Fu così: società e corporeità furono per il Maestro entrambe cause frequenti di dolore. Già in giovane età Freud – ebreo per etnia, anche se non per pratica religiosa – dovette fare i conti con l'antisemitismo. Poi anziano: là dove arrivava l'influenza di Hitler le sue opere furono messe al bando. Sul versante familiare – dall'età di 64 anni, con la morte prematura dell'amata figlia Sophie (25 gennaio 1920) – fu un susseguirsi di situazioni angosciose. E la salute: i sintomi di quella che sarebbe divenuta la sua malattia terminale cominciarono a farsi sentire in maniera gradatamente sempre più invalidante.

Intanto la situazione politica dell'Europa stava precipitando. Fu nel 1938, quando l'Austria venne annessa al Terzo Reich, che la vita divenne insopportabile. Addirittura la Gestapo arrivò ad arrestare Anna: possiamo immaginare l'angoscia di Freud sapendo la figlia diletta nelle mani dei nazisti. La famiglia riuscì comunque a fuggire a Londra, pagando ai tedeschi un'ingente somma di denaro in gran parte fornita da una ex-paziente, la principessa Marie Bonaparte, ma le quattro sorelle del Maestro finirono nei campi di sterminio nazisti, dove trovarono la morte nel 1942.

Quindi su una sofferenza fisica ormai cronica si inseriva a dismisura quella psicologica.

La lotta contro il cancro durò ben 16 anni. Freud venne colpito da un carcinoma maxillo-facciale devastante per il quale subì 32 interventi chirurgici, fino all'asportazione completa di tutta la muscolatura mandibolare: non riusciva a parlare e all'aspetto era inguardabile. Sapeva che il cancro l'avrebbe portato alla morte e che non sarebbe stata una morte facile, come sapeva che il suo rapporto col fumo, verso il quale aveva sviluppato un nevrotico comportamento dipendente, aggravava non poco sintomi e morbo, ma non riusciva a fare a meno dei sigari che fumava compulsivamente.

Il 20 settembre 1939, abbattuto da una sofferenza atroce, Freud chiese a Max Schur, suo medico personale, di risparmiargli quegli ultimi inutili patimenti e Schur aumentò progressivamente le dosi di morfina fino a provocare il definitivo collasso. Freud cessò di respirare nel cuore della notte. Forse il destino volle sollevare il Maestro dall'ultimo strazio: vedere l'Europa in fiamme, la Shoah, la fine delle sorelle nelle camere a gas. Il 1 settembre 1939 i nazisti avevano invaso la Polonia; di lì a poco ci sarebbe stata la catastrofe e le istanze più oscure del principio della Thanatos si sarebbero incarnate nella storia.

Da questa sconnessa carrellata sulla vita di Freud quali riflessioni vengono a scaturire? E quale comun-denominatore possiamo individuare nei passaggi esistenziali che scandirono il formarsi della scienza psicoanalitica?

Prima scena.

La psicoanalisi nasce storicamente come tentativo di strutturare un processo di cura, ma ben presto si ritrova ad essere una vera e propria Weltanschauung.Quindi “andare in analisi” vuol dire soprattutto entrare nel mondo interno individuale per esplorarlo seguendo le coordinate fornite da un sistema di riferimento preordinato, allo stesso modo in cui il navigante segue una mappa in assi cartesiani per potersi orientare e stabilire la propria posizione nello spazio geografico. Ma se proponiamo un sistema di riferimento a più assi – come avviene nelle geometrie non-euclidee – il navigante deve riconfigurare tutta la propria strumentazione, altrimenti si perde.

Seconda scena.

Lo strumento analitico può lenire la sofferenza esistenziale, in quanto consente di comprendere, riconfigurare, collocare nel Sé, e – grazie al Transfert – liberare energia implosa, bloccata. (Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, 1924 – 1929), ma ben poco può di fronte al biologico ancestrale od a fronte di ciò che si colloca in una lontananza irrecuperabile; ancor meno può di fronte al premere di un destino sociale avverso. Due anni prima di morire, in Analisi terminabile e interminabile, Freud pone una questione importantissima: dove stia il "fondo roccioso della psicoanalisi", cioè l'impossibilità a proseguire il lavoro psicoanalitico oltre un certo limite. Possiamo affermare che il dolore, ogni dolore irrisolvibile, sia il “fondo roccioso” dell'uomo, oltre che dell'analisi.

Il saggio Il disagio della civiltà (1929) in fondo testimonia la consapevolezza dell'incommensurabile fragilità umana, il suo destino cupo, la sua natura rapace destinata al fallimento: sono gli anni della “grande crisi” che si propaga rapidamente fuori dagli USA – dove ha origine – per interessare ampiamente l'Europa: il ritiro dei prestiti americani mette in ginocchio anche l'Austria di Freud: nell'aria si respira “pessimismo cosmico”. Nel suo saggio Freud vede la tensione fondamentale tra civiltà e individuo, tensione che nasce dalla ricerca della libertà istintiva, del piacere, mentre la "civiltà” richiedere l'esatto contrario, cioè una forte limitazione della libertà individuale ed una mortificazione delle pulsioni. Così molte istanze energetiche primitive, mal-sopite negli esseri umani, quali l'istinto assassino, il bisogno di supremazia (anche economica) ed il desiderio di appagamento sessuale, anche là dove non è opportuno, sono chiaramente dannosi per il funzionamento di una comunità umana, quindi è compito dell'apparato sociale reprimerli. Perciò la società crea leggi che proibiscono l'uccisione, lo stupro, l'adulterio, il furto, ma questo processo – sostiene Freud – infonderà inevitabilmente sentimenti di insoddisfazione perpetua e per questa repressione la società pagherà un prezzo, il prezzo di una sorta di miscela esplosiva sempre presente al proprio interno.

Terza scena.

La psicoanalisi può rendere l'uomo consapevole, ma non felice, anzi, spesso è in grado di togliergli ogni illusione “malata”, la “nevrotica felicità” – per usare un'espressione dello stesso Freud – compreso quella religiosa, per renderlo un “sano” infelice: “gli Dei – afferma Freud – svolgono un triplice compito: essi esorcizzano il terrore delle forze naturali, riconciliano l'uomo con la crudeltà del Fato, in particolare nella forma della morte, e offrono una consolazione per le sofferenze e le privazioni che una vita civilizzata ha imposto” (L'avvenire di un'illusione 1927). Allora qual è la proposta della psicoanalisi? Essa indica un percorso introspettivo, un “guardarsi dentro per capire”, ma poi lascia solo l'uomo in compagnia del proprio limite e del proprio dolore, quel dolore che “ci minaccia da tre parti” ( Il disagio della civiltà ).

Ultima scena.

Quindi, il comun-denominatoredelle scene precedenti? Il senso del fare psicoanalisi oggi? Freud non propose mai la lotta, nessuna “lotta di liberazione”, nessun nemico esterno da combattere: non additò a nemico neppure il nazismo. Riconobbe che l'uomo è contornato da fattori avversi (forze distruttive inesorabili e di immane potenza – 1929) ed indicò un'accettazione quasi di tipo stoico come unica prospettiva realistica. Questa linea di rinuncia consapevole alla dimensione del dionisiaco (Friedrich Nietzsche) – che altro non è che la coscienza della necessità di una regolazione della Libido da parte delle funzioni dell'Io – trova le sue radici in Arthur Schopenhauer: Freud fu un buon lettore del filosofo tedesco e ne fu indubbiamente molto influenzato. D'altra parte in Il mondo come volontà e rappresentazione (Schopenhauer – 1819, nuova stesura nel 1844) la mappatura freudiana è già tracciata in anteprima, così come tracciato è il pessimismo di Freud.

Quasi un epilogo.

Eppure, questo “volgersi all'interno” indicato dalla psicoanalisi, conditio sine qua non di ogni analisi stessa, questo tradurre in termini laici secoli di intimismo ascetico religioso, ha avuto un profondo senso nella cultura occidentale del '900. Freud fa eco a secoli di tradizioni religiose che vedono nell'introspezione la via per la ricerca del senso, la via di ritorno ad un Sé, ad un baricentro esistenziale (il centro di gravità permanente delle canzoni di Franco Battiato) che ci è stato alienato dal mondo attuale. La civiltà moderna conosce bene la Cultura del Fare, ma è ben lungi dal riconoscere una Cultura dell'Essere: anzi, diviene attonita e balbuziente a fronte di qualunque domanda le si ponga nell'ordine metafisico (Martin Heidegger). Soprattutto le società neo-liberiste, che hanno buttato l'uomo nella logica della produttività a tutti i costi e dell'accelerazione, hanno espropriato l'individuo del diritto all'interiorità, all'identità ed al vissuto del centro. Non di meno quelle socialiste dell'Oriente asiatico il cui primo dettato sembra ormai essere la corsa alla colonizzazione economica dell'Europa.

Allora, cosa può proporre il percorso dell'analisi individuale nel frenetico oggi contemporaneo? La risposta è al contempo semplice e drammaticamente complessa: tentativo, sfida, ritorno; in ogni modo “incontro ravvicinato di terzo tipo rubando il concetto a Steven Spielberg – con la propria Anima. Non è possibile articolarla oltre, questa risposta.

Gianni Tadolini